"La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla"
Gabriel Garcia Marquez
Concorso Alla scoperta della Resistenza La storia siamo noi
Ricordare e riflettere
VI Edizione 2020
3° premio al racconto
UN SOLDATO TEDESCO
link al comunicato:
https://www.concorsiletterari.it/risultati-concorso,9514,Concorso%20Alla%20scoperta%20della%20Resistenza%20-%20La%20storia%20siamo%20noi.%20Ricordare%20e%20riflettere.
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LAPO
I sandali di cuoio lasciavano entrare, attraverso i due ‘occhi’ ovali che avevano in punta, i sassolini di pietra bianca del vialetto.
Lapo scalciava, ogni due o tre passi, per cercare di far uscire quegli intrusi dai suoi piedi.
Si era tolto il berretto da marinaretto, che stringeva nella mano sinistra, e il sole gli picchiava in testa.
Nella mano destra teneva, facendo molta attenzione a non rovinarli, tre tulipani rossi, dai petali ben chiusi come fossero dei cuoricini.
Il bambino si avvicinò al piccolo tumulo, lungo meno di un metro, circondato da una fila di semplici pietre ben ordinate e sovrastato da una croce di legno sbiadita dal sole e dalla pioggia.
Una targhetta in allumino, inchiodata al centro della croce, portava scritto, impresso a stampo:
N. 3 – Ralf - ? e, sotto il nome: N.? – M. 1945.
Quello era il ‘suo’ tedesco.
C’erano sei tombe ben allineate, in quell’angolo un po’ appartato del piccolo cimitero, all’ombra di alcuni vecchi cipressi. Sei sepolture di altrettanti tedeschi trovati morti alla fine della guerra nei prati e fra i filari di viti, sulle colline che circondavano il paese. Solo due di loro avevano il nome impresso sulla croce, per gli altri c’era solo un numero: sui loro corpi non era stata trovata nessuna medaglietta identificativa, né documenti. Questo, Lapo, lo aveva sentito raccontare, perché lui era nato subito dopo i fatti, alla fine del 1945.
E quando, a otto anni, con il suo gruppo di amici, aveva deciso di ‘adottare’ quelle tombe perché durante la festa dei morti erano tristemente abbandonate a confronto di tutte le altre che venivano ricoperte di fiori e brillavano per le luci delle candele, lui non aveva avuto dubbi, lo aveva scelto d’istinto: quel Ralf sarebbe stato il suo tedesco.
Da quando avevano iniziato ad occuparsene, le tombe dei militari sconosciuti erano divenute, durante la settimana dei defunti, le più belle del cimitero. I ragazzi facevano a gara per rendere la propria più splendente delle altre: fiori freschi, candele, lanterne, mosaici realizzati con piccoli sassi colorati per abbellire il tumolo di terra. Tutto materiale rubato di nascosto alle sepolture ‘più ricche’, aspettando pazientemente la partenza dei congiunti. Un fiore qua, un candelotto là… nessuno se ne accorgeva e alla fine i sepolcri dei loro tedeschi erano fantastici! Alla messa del 2 novembre, ufficiata nella cappella centrale del cimitero, e alla benedizione che ne seguiva, ogni morto aveva i propri familiari vicini.
Anche loro, ‘parenti putativi’ dei soldati dimenticati, se ne stavano orgogliosamente in piedi, come sentinelle, ciascuno accanto alla tomba prescelta.
Chi percorreva quel vialetto sorrideva e si complimentava con i ragazzi per la cura e la bellezza dell’addobbo, rendendoli felici.
Quel giorno però, Lapo aveva un velo di tristezza negli occhi.
Appoggiò il berretto sulla croce, depose per terra i tulipani – che aveva colto, senza farsi scorgere, dal giardino di sua zia –, e si diresse verso la fontanella con il vasetto di ceramica da cui pendevano dei fiori secchi.
Mentre lo lavava e lo riempiva di acqua fresca, ricordò uno ad uno i quattro anni in cui si era preso cura di quel suo amico sconosciuto. Di solito lo aveva fatto in autunno, per i giorni della commemorazione; quella era forse la prima volta che se ne occupava nel mese di maggio.
Ed era consapevole che sarebbe stata l’ultima.
Una delegazione tedesca, entrata in contatto con le autorità locali, stava riportando nel loro paese tutti i compatrioti morti in guerra e sepolti nei cimiteri italiani.
La notizia era stata confermata con tanto di data in cui sarebbe avvenuta la riesumazione: il martedì della settimana seguente.
Lapo non voleva che la tomba fosse trovata disadorna.
Riordinò le pietre che con la pioggia si erano spostate e strappò dei ciuffetti d’erba che erano cresciuti intorno al tumulo, al centro del quale incastrò bene il vasetto ponendovi i tre tulipani; poi con grande facilità, visto che il cimitero era praticamente deserto, rubò un candelotto da una lapide che ne aveva una mezza dozzina, e lo mise alla base della croce.
Ecco, adesso era una sepoltura presentabile.
Rimase in piedi per qualche minuto, con il berretto stretto fra le mani, poi sussurrò: “Ciao Ralf”.
Uscì dal cimitero, con un nodo alla gola, senza voltarsi.
OSANNA
Osanna era una bella donna, bella davvero.
Sembrava inconsapevole del suo aspetto o, almeno, disinteressata a quella sua dote naturale.
Aveva un portamento regale, un corpo prosperoso ma elegante; quando camminava, il suo incedere faceva scomparire qualsiasi altra cosa succedesse intorno a lei. Era stata così fin da adolescente e, superati i trent’anni, queste sue caratteristiche apparivano ancora più evidenti.
Quel giorno saliva il viale che conduceva al cimitero con un passo meno incisivo del solito; sembrava le mancasse quel senso di sicurezza che, normalmente, emanava dalla sua figura.
Attraversò il cancello e si diresse verso la cappella dove erano sepolti i suoi nonni. Aveva in mano una borsa a rete, di filo, da cui sbucavano dei rami fioriti di piccole rose. Li tolse e, dal fondo della sacca, tirò fuori anche tre candelotti. Mentre si dirigeva verso la fontanella con i due vasetti di rame delle lapidi dei nonni, si guardò intorno per controllare se ci fosse qualcuno in giro. Aveva volutamente scelto un orario insolito, l’ora di pranzo, per non incontrare nessuno.
Il sole batteva forte, era un mese di maggio particolarmente caldo, e l’escursione termica fra il fresco della cappella e l’esterno era considerevole; ancora di più la differenza di luminosità.
Quando ebbe sistemato i fiori e accesi i due candelotti, recitò in silenzio una preghiera; poi, uscita all’aperto, il sole le inondò il volto e per un po’ ebbe la vista sfocata; si ritrovò così, quasi senza aver visto il tragitto percorso, davanti alla croce di Ralf.
“La guerra è finita! La guerra è finita” Lo dicevano, lo gridavano, lo ripetevano.
Ma gli uomini ancora non erano tornati a casa, non tutti.
Osanna era rimasta sola con i vecchi genitori, durante la guerra. Olmo, il fratello maggiore, partito con il Corpo di spedizione italiano in Russia, era stato dato per disperso già da tre anni, e del secondo si sapeva solo che stava ancora sul monte Albano, con i partigiani. Lo aspettavano di ritorno da un giorno all’altro.
Nonostante la mancanza di uomini in casa – il padre di Osanna era immobilizzato in poltrona – la guerra era passata senza troppi sacrifici. Il loro piccolo podere, fatto di due campi, l’orto, alberi da frutta, galline, conigli e due mucche, aveva permesso di non patire la fame come era avvenuto invece nelle città.
Un contadino rimasto senza terra, anziano ma ancora forte e robusto, aveva aiutato le due donne a mandare avanti le culture e la cura delle bestie, in cambio della metà dei prodotti. Osanna lo aveva aiutato con grande entusiasmo ed energia: in contrasto con un corpo estremamente femminile, la ragazza aveva un piglio e una determinatezza da vero maschio.
L’annuncio della fine della guerra l’aveva resa ancora più euforica, spingendola a lavorare con maggior lena. Proprio in uno di quei giorni, salita con il forcone in mano sul soppalco della stalla per buttare giù del fieno per le mucche, si ritrovò di fronte, disteso su quel mucchio di erba secca, la faccia spaurita di Ralf che, a braccia alzate e muovendo la testa a destra e a sinistra ripeteva sottovoce: “Nein, nein.. bitte… nein, nein…”
Era spaventatissimo.
Osanna, neanche un po’.
Nonostante il ragazzo avesse tolto tutte le mostrine, era evidente che vestiva una divisa militare.
Lo guardò fisso negli occhi e, mettendo un dito davanti al naso, gli fece cenno di stare in silenzio e calmarsi; poi, a gesti, gli chiese dove avesse il fucile, o la pistola. Lui riprese a ripetere insistentemente, sempre più forte: “Nein, nein!” e, per mostrare che addosso non aveva armi, si alzò in piedi.
Ricadde subito, svenuto.
Una ferita, sulla sua tempia sinistra, riprese a sanguinare.
Mentre accendeva il candelotto sulla tomba di Ralf, Osanna ricordò quei momenti straordinari, in cui la vita, con un avvenimento così inaspettato, l’aveva messa alla prova, in un attimo, sotto ogni punto di vista. Ricordò l’ansia che l’aveva assalita quando lui era svenuto e l’emozione che era andata a sostituire quell’incosciente tranquillità con cui lo aveva affrontato un attimo prima; ricordò la paura di non essere in grado di scegliere la cosa giusta da fare e l’immediata consapevolezza che avrebbe dovuto occuparsene da sola: il coinvolgimento di altre persone, infatti, le suggeriva conseguenze tragiche.
E aveva deciso d’istinto.
In quel momento c’era solo da aiutare qualcuno che stava male.
Nient’altro contava.
L’emergenza aveva rimesso in moto la sua energia vitale e non ebbe esitazioni: scese, munse la mucca quanto bastò per riempire di latte il grosso mestolo di smalto e lo avvicinò alle labbra di Ralf che, come un bambino che sente il capezzolo della madre, iniziò a succhiare.
Poi lo disinfettò, mise delle bende alla sua ferita e lo nutrì: non mangiava da quattro giorni.
Gli portò secchi di acqua e del sapone perché potesse lavarsi.
E una camicia pulita di suo fratello Olmo.
Il giorno seguente, mentre gli medicava la ferita, si baciarono.
E si amarono.
Per Osanna fu la prima volta.
La prima.
Ralf pianse per questo. Pianse di gioia, di riconoscenza, di amore.
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“Ci sono ancora dei tedeschi in giro!” “Cercateli! Prendeteli!”
Le voci, per il paese, correvano. Notizie di arresti, di soldati trovati morti.
I partigiani stavano tornando dal monte, in piccoli gruppi, e i più esaltati guidavano drappelli alla ricerca di fascisti e tedeschi in fuga. Orazio, il fratello più piccolo, non era ancora rientrato, ma Osanna aveva saputo dai suoi compagni che sarebbe stato a casa prestissimo, al massimo il giorno seguente.
Ralf, nascosto nel fienile, aveva capito perfettamente cosa stava succedendo: le voci concitate degli uomini rientrati in paese non davano adito a dubbi. Dopo due giorni in cui il suo cuore era quasi scoppiato di gioia per il tanto amore per Osanna, adesso lo sentiva scoppiare nel petto per il dolore, perché aveva coscienza che avrebbe dovuto lasciarla.
Doveva andare.
Si amarono tutta la notte, quell’ultima notte.
Molto prima dell’alba, lasciando Osanna addormentata sul fieno, Ralf si incamminò verso il monte Albano, attraverso i prati e i vigneti di Capezzana.
Osanna infilò un ramo di roselline nel vaso, in mezzo a tre tulipani rossi che avevano aperto i loro petali come fossero delle coppe di champagne.
Con una mano prese un bacio dalla bocca e lo pose dolcemente sulla croce di legno.
Inginocchiata, ricordò quella mattina… il risveglio fra il fieno che conservava ancora l’impronta del corpo di Ralf, un vuoto che le era sembrato insopportabile: un amore così non poteva vivere per soli due giorni!
Aveva creduto di impazzire: si era precipitata giù dal soppalco e, scalza, aveva iniziato a correre fra i campi alla ricerca del suo uomo.
In quella corsa folle, accecata dalle lacrime e dalla disperazione, le era venuto incontro Orazio, con il fucile in spalla. I suoi capelli brillavano come una corona dorata, al primo raggio di sole che stava sorgendo da dietro il monte.
Era sano e salvo.
Si erano abbracciati e avevano pianto insieme, a lungo, stretti l’uno all’altra, quasi urlando.
Lo ricordava bene quel grido, che aveva ancora dentro al cuore.
Osanna si alzò, e dopo aver sfiorato delicatamente con le dita la targhetta di alluminio con il nome del suo amato, disse, sottovoce: “Addio Ralf.” E uscì dal cimitero.
ORAZIO
Ogni giorno, subito dopo il tramonto, l’anziano guardiano del cimitero, che tutti chiamavano semplicemente il becchino, veniva a chiudere il cancello.
In realtà lo accostava soltanto; probabilmente la vecchia serratura non era mai stata utilizzata, e chissà se la chiave esisteva ancora.
In effetti non c’era motivo di chiuderlo… chi avrebbe mai avuto interesse a rubare qualcosa lì dentro?
Orazio attese, accovacciato sotto una pianta di vite che odorava di rame appena spruzzato, che la sagoma del vecchio, diretto a casa, sparisse in fondo alla discesa del viale. Un minuto dopo, richiuso il cancello dietro di sé, si diresse lungo il vialetto che portava alle tombe dei tedeschi.
Una pallida luce calda, rosata, diffusa dal cielo terso, rendeva tutto ovattato; anche il rumore dei passi sulla ghiaia sembrava attutito.
Il mondo, tutto intorno, stava vivendo quel magico momento prima di addormentarsi, in un silenzio quasi assoluto: non un filo di vento, non un cinguettio – gli uccelli già rientrati nei loro nidi – e troppo presto per il canto dei grilli.
I sei tumuli, con le croci che si stagliavano contro il muro di cinta, sembravano, con quella luce, una vecchia foto color seppia.
Solo la terza tomba, quello di Ralf, aveva una candela ancora accesa, ma la fiammella, debolissima, preannunciava la fine della cera. Tre tulipani, come fuochi d’artificio, mostravano i petali completamente spalancati a fare da cornice ad un rametto di rose.
Orazio si sedette per terra, dietro a quella croce, le spalle appoggiate al muro. Osservò le sue gambe e le sue braccia, anch’esse ormai parte di quella foto monocromatica, e alzò gli occhi al cielo, verso le cime dei cipressi.
“Ci sono ancora dei tedeschi in giro!” “Cercateli! Prendeteli!”
Le voci, sul monte, si rincorrevano da un bosco all’altro.
“Dobbiamo scendere, stanare i fascisti!” Giungevano, dalla pianura, notizie di arresti, di soldati trovati morti. I vari gruppi, organizzati in tre, quattro unità, si stavano riunendo nella grande radura della pineta. Quando furono tutti riuniti, decisero di scendere verso il paese alla spicciolata, percorrendo sentieri diversi, in modo da poter perlustrare la maggior area possibile e battere a tappeto tutto il territorio. La consegna era: fare prigionieri e aprire il fuoco solo in caso di pericolo per la propria vita. Erano tutti armati di fucile e avevano munizioni in quantità.
Orazio si era incamminato, quel pomeriggio, insieme ad un suo compagno e aveva fatto con lui gran parte della discesa del monte. Si erano fermati, ormai in collina, a pochi chilometri dal paese: il buio era sopraggiunto, e la luna sarebbe sorta più tardi, quella notte. Un vecchio deposito di legna abbandonato li aveva ospitati per riposare qualche ora. Passate da poco le quattro del mattino, aiutati dalla fioca luminosità di una sottile falce di luna, si separarono per scendere in paese seguendo due diversi cammini. Orazio scelse quello, ben conosciuto, che conduceva direttamente ai suoi campi.
Fu verso la fine di quel sentiero che vide sopraggiungere, correndo, sua sorella Osanna.
Nel cimitero era calato il crepuscolo e i colori non erano più percepibili: adesso sembrava di stare in una foto in bianco e nero.
Qualche grillo aveva iniziato a cantare.
La candela si era spenta.
Orazio si mise in ginocchio, la croce di Ralf gli stava all’altezza del torace.
Trasse da una tasca della giacca un candelotto, poi un accendino.
Quando, al primo scatto, si accese la fiamma che gli illuminò il viso, non riuscì più a reprimere un dolore che gli stava gonfiando il cuore, e iniziò a piangere come un bambino.
Mentre le lacrime gli inondavano la faccia ricordò quella notte, quell’ultimo tratto di percorso che lo separava dal ritorno alla libertà, dalla gioia di ritrovare la famiglia, dall’inizio di una nuova vita.
E ricordò il rumore, vicino, che aveva percepito nel buio.
Ricordò il terrore e poi quella luce, improvvisa, davanti a sé.
“Perché?”
“Perché, Ralf, hai acceso quell’accendino? Perché?” ripeteva singhiozzando.
“Ho avuto paura, Ralf.”
“Non volevo. Non avrei mai voluto farlo.”
Per Orazio era stata la prima volta.
La prima volta che ammazzava qualcuno.
A guerra finita. “Perché?”
Dopo lo sparo era calato il silenzio.
Orazio, tremante, era rimasto accucciato dentro il fosso che costeggiava il sentiero senza rendersi conto di cosa fosse successo. Se ne era stato così, sdraiato fra l’erba alta, ameno per un’ora, finché il sopraggiungere dell’aurora non aveva iniziato ad illuminare la collina.
E allora aveva avuto quella terribile visione.
Dal fosso che costeggiava l’altra parte del sentiero, a pochi passi da lui, sbucavano fuori le gambe di qualcuno: si distinguevano bene gli scarponi.
Si era avvicinato imbracciando il fucile, ma appena lo aveva visto, disteso supino sul ciglio erboso, aveva gettato l’arma ed era corso a sostenergli la testa.
Aveva fatto appena in tempo a sentirlo ripetere, con un filo di voce: “Nein, nein.. bitte… nein, nein…”, e gli era spirato fra le braccia.
Orazio era rimasto per più di un’ora così, con la testa di quel ragazzo sulle gambe.
Era rimasto ad accarezzare i capelli a quel suo coetaneo, cui aveva sottratto la vita, incapace di muoversi, cristallizzato in un dolore che non gli permetteva alcuna reazione, neppure il pianto.
Poi lo aveva composto, sdraiato sotto una quercia, quasi stesse dormendo e, come un automa, aveva continuato la sua discesa verso casa.
E, poco dopo, aveva visto arrivare Osanna.
Le era corso incontro.
Insieme avevano urlato le loro segrete disperazioni.
La fiamma dell’accendino illuminò di nuovo il volto di Orazio, e il candelotto si accese.
Ormai era notte.
L’uomo, in piedi, si asciugò con un fazzoletto il viso bagnato di lacrime, e sussurrò:
“Perdonami Ralf.”
Il sentiero di sassolini bianchi, con la luna che stava sorgendo, sembrava fosforescente.
Lo percorse fino al cancello, e uscì dal cimitero.
RALF
Erano arrivati in quattro: Herr Schröder, capo responsabile, con Fräulein Zimmermann, Herr Krause, e Herr Mayer.
Le sei salme erano già state riesumate, all’alba, e i loro resti disposti su dei teli cerati disposti ai piedi di ciascun tumulo: ossa mescolate alla terra, qualche brandello di tessuto, i resti marci delle misere casse di legno.
Mentre Herr Schröde, rigido in un improbabile cappotto nero lungo fin sotto il polpaccio sovraintendeva alle operazioni, immobile a fianco di un cipresso, Fräulein Zimmermann, gli occhiali abbassati sul naso, prendeva nota di tutto ciò che avveniva, su un grosso taccuino; i suoi capelli, biondissimi, erano costretti in uno chignon di trecce che sembrava un cesto di vimini. Intanto Herr Krause, con una macchina professionale dotata di un grosso flash, scattava foto ravvicinate ai resti mortali, e ogni tanto si allontanava per prendere alcune immagini dell’insieme. Chi si stava dando più da fare era Herr Mayer che, con dei guanti di gomma, stava separando le ossa dalle altre cose, raccogliendole in due diverse cassette poste a fianco di ciascun telo: in quelle di metallo metteva ciò che restava del corpo, in quelle di legno gli oggetti - bottoni, fibbie, resti di mostrine -. Tutto ciò che, invece, era addosso ai cadaveri al loro ritrovamento – pistole, anelli, orologi –, conservato dal Comune, era stato consegnato a Fräulein Zimmermann il giorno precedente e lei lo aveva verificato e catalogato. Fra questi reperti erano compresi anche gli unici due indizi che avevano reso possibile porre un nome su due di quelle croci: una lettera che iniziava con: ‘Mein lieber Karl…’, e una foto con dedica: ‘Mit liebe zu Ralf deine Mutter’.
Mi chiamo Ralf Bauer, sono nato a Colonia l’11 novembre 1920 e sono morto qui, su una collina della Toscana, il 18 aprile 1945. Inutile che mi riportiate in Germania, io lì non ho nessuno. Nel mio paese non ci sarà qualcuno a curare la mia tomba, sarò solo un numero: sono figlio unico e mio padre e mia madre sono morti in uno dei tanti bombardamenti della città. Durante la guerra mia madre mi è mancata molto. Con lei avevo un rapporto speciale: suonava benissimo il pianoforte e quando da piccolo mi raccontava le fiabe, lo faceva accompagnandosi con una melodia che improvvisava sulla tastiera. Da adulto mi confidavo con lei senza imbarazzo; lo facevo, sempre, mentre lei suonava, e lei mi ascoltava: la mia preoccupazione, a vent’anni, era di non essermi ancora innamorato e di non sapere come lo avrei potuto capire quando fosse avvenuto. Ricordo le sue parole, pronunciate poco prima che mi arruolassi, sottolineate prontamente da una veloce e brillante scala di note del pianoforte: “Una esplosione, sarà una esplosione. Ti scoppierà il cuore, non potrai non accorgerti.”
Quella esplosione, per la prima volta nella vita, l’ho provata con Osanna… mia madre aveva ragione, non ci si può confondere. Ho capito subito che la mia esistenza aveva senso solo se fossi rimasto qui: quella notte mi sono incamminato su per il monte sperando di poter restare nascosto nei boschi e sopravvivere il tempo necessario – fossero serviti anche mesi – finché tutto quello schifo di guerra fosse finito veramente, per poter tornare da Osanna. Lei, la mia prima donna, io, il suo primo uomo. Quando il colpo di fucile mi squarciò il petto, pensai che un amore così non poteva vivere per soli due giorni.
L’operazione di recupero delle salme stava per giungere al termine. Nel frattempo avevano raggiunto il medico legale del Comune, che aveva assistito alla esumazione, anche il Sindaco e il Maresciallo dei Carabinieri. Nel cimitero gruppi di paesani osservavano con curiosità ogni movimento, a dovuta distanza, sparpagliati fra le piccole tombe del settore degli ‘angioletti’, i morti bambini.
Erano presenti tutte le vedove del paese, e le donne, fra quelle a cui erano morti i figli in guerra, che avevano avuto la fortuna di avere un corpo su cui piangere: per loro ogni scusa era buona per poter stare vicine ai loro defunti. Il prete sarebbe arrivato da lì a poco; era prevista una breve cerimonia religiosa con la benedizione delle salme prima del loro ritorno in patria.
Lapo e i suoi compagni, piccoli parenti putativi dei tedeschi, se ne stavano in fila sotto l’ombra di un cipresso, serissimi, compunti.
In fondo al vialetto, quasi al centro del cimitero, Osanna e Orazio, una vicina all’altro.
Orazio, ti ho perdonato subito. Quando hai preso la mia testa fra le tue braccia, ho capito che avevamo tutti e due le stesse colpe e la stessa innocenza. Dovevo restare su questa terra di Toscana, e tu sei stato lo strumento predestinato affinché questo avvenisse.
Osanna, mia dolce Osanna, l’ho sentita, sai, insieme alla mia, anche l’esplosione del tuo cuore, quando ci siamo amati. Come sei bella, ancora… più di prima.
Le cassette erano ormai tutte chiuse, disposte in buon ordine sul sagrato dalla cappella centrale. Il prete, dopo aver letto una preghiera in latino le benedisse con un aspersorio d’argento.
Mentre il cimitero si stava svuotando, Lapo, lasciati i compagni, aveva raggiunto sua madre, Osanna, e lo zio Oreste.
Insieme si incamminarono fuori dal cancello.
Portate pure le mie ossa in Germania, io resto qui.
Il mio cuore resta qui.
Qui c’è la mia famiglia, la mia donna, mio figlio.